Prof. Fernando Alberti

A cura di
FERNANDO G.
ALBERTI

In ogni cosa è bene, di tanto in tanto, mettere un punto interrogativo a ciò che a lungo si era dato per scontato.

Bertrand Russell

THE END: Le sette discontinuità competitive che cambiano per sempre le organizzazioni*

*Adattamento dell’introduzione al capitolo “Le sette discontinuità competitive”. Il libro completo è scaricabile gratuitamente al link https://www.cfmt.it/courses/6944_36423

Alcuni tratti della nostra società ci connotano da così tanto tempo che sembra ovvio che non possa essere altro che così.

Pensiamo per esempio al concetto di media, che troviamo ovunque, dalle taglie degli abiti ai punteggi scolastici, dai percorsi di carriera ai servizi telefonici. Il nostro mondo è fondato sulla media, sullo standard, sulla distribuzione normale. Lo stesso vale per la proprietà: possedere un’auto per muoversi, una casa per vivere, un telefono per comunicare. La nostra auto, la nostra casa, il nostro telefono. O ancora l’idea che l’impresa sia concepita per produrre profitto, per remunerare gli azionisti, e non necessiti di uno scopo ulteriore rispetto a questo. È la base del capitalismo. È ora il momento di scardinare questi e altri presupposti, che hanno connotato certamente il nostro recente passato, ma che non connoteranno il nostro futuro.

Nel diciannovesimo secolo, medici, scienziati ed esperti di sanità insistevano tutti sul fatto che le malattie fossero causate dal “miasma”, un termine di fantasia per indicare l’aria cattiva1. Il mondo occidentale si fondava sulla granitica convinzione che per prevenire le malattie, le finestre dovessero essere tenute aperte o chiuse, a seconda che ci fosse più miasma all’interno o all’esterno della stanza. Tutti credevano che l’aria cattiva portasse malattie. Poi, in maniera dirompente – grazie al progresso scientifico – ci si rese conto che l’aria cattiva era data da cose invisibili all’occhio umano, chiamate microbi e batteri e che questi erano la vera causa delle malattie. Questa nuova visione della malattia ha portato cambiamenti radicali nella medicina, introducendo ad esempio gli antisettici, nella scienza, con l’introduzione di vaccini e antibiotici, nella quotidianità, suggerendo di lavarsi frequentemente le mani, far bollire l’acqua, cucinare accuratamente il cibo o disinfettare le ferite.

Questo cambiamento nel modo di guardare il mondo è simile a come vogliamo che tu guardi al vecchio mondo delle media, della proprietà, del profitto o delle altre quattro discontinuità da noi identificate. Si tratta di un radicale paradigm shift, apparentemente sottile sì, ma di enorme portata in termini di impatto. Tra qualche decennio ci meraviglieremo di come fosse possibile in passato concepire il mondo senza le sette discontinuità che qui andiamo a tracciare e guarderemo all’era precedente con la stessa espressione compassionevole con cui oggi guardiamo al vecchio concetto di “miasma”.

Abbiamo identificato sette discontinuità di cui si compone il cambio di paradigma:

1. The end of average
2. The end of doing
3. The end of reality
4. The end of abundance

5. The end of profit-first
6. The end of isolation
7. The end of ownership

Sette discontinuità che danno avvio ad altrettante nuove ere, che – contigue le une alle altre – consentono di offrire uno spettro completo di ciò che si prospetta all’orizzonte.

Ma perché queste sette discontinuità dovrebbero condurre a un nuovo paradigma, producendo un effettivo cambiamento nelle organizzazioni?

Innanzitutto perché la fine del concetto di “media” (the end of average), ormai anacronistico e da più parti ritenuto sinonimo di poco valore – perché superato nei fatti dal “su misura”, dal “personalizzato” o dal “bespoke” in ogni ambito – apre a una nuova epoca, the age of individuals, quella che riporta al centro l’unicità e l’idiosincraticità di ogni individuo, nelle sue esigenze, abitudini, aspettative. Potremmo ragionevolmente affermare “one size DOES NOT fit all”. Ciò, a nostro avviso, nasce dal convergere della generalizzata volontà di affermare e veder riconoscere se stessi, nelle proprie specificità fisiche, psicologiche, cognitive, attitudinali, affettive, per bisogni, interessi e orientamenti, che è resa possibile dalla disponibilità di dati puntuali, granulari e in tempo reale su qualunque sfera del nostro essere e agire, cosa che ci assicura una lettura fedele della nostra individualità, unita alla possibilità di unire layer fisici e digitali in tutti i prodotti e servizi che quindi saranno sempre più personalizzati, in misura sempre più crescente in ragione della nostra capacità computazionale e di storage. Ovviamente una tale produzione di dati, per capillarità, puntualità, disponibilità e scala è sempre più possibile per via dell’Internet of Everything, con smart connected product che non solo producono dati continuativamente e in tempo reale, ma si alimentano degli stessi per adeguare le proprie funzionalità, caratteristiche e performance. Ecco che contigua alla prima discontinuità se ne scorge un’altra, che ha il potenziale di aprire anch’essa a una nuova era. Ci stiamo riferendo a ciò che abbiamo chiamato the end of doing, che apre a the age of autonomy. Se l’Internet of Everything costituisce la potenza computazionale e generativa che si alimenta di questa mole di dati e informazioni di altissima qualità attraverso l’artificial intelligence e il machine learning la rendono sostenibile, è la nostra voglia di tagliar corto sui tempi, di compensare lacune e debolezze, finanche limiti e fragilità, di evitare attività e compiti rischiosi e usuranti, di disporre di “super-poteri”, che non solo ci offre la possibilità di far fare alle macchine (hardware e software) al nostro posto, ma che rende le macchine stesse potenzialmente autonome di operare. Possiamo smettere di chiedere indicazioni stradali, di uscire se dobbiamo acquistare qualcosa, di guidare, di scrivere o parafrasare un testo, di trasportare qualcosa di pesante, di imparare una lingua per poterla comprendere e parlare, e così via in ogni ambito della nostra società. È, appunto la “fine del fare”.

Più ci immergiamo nei data lake e la nostra quotidianità si popola di soluzioni hardware e software che ci accompagnano e si sostituiscono a noi nel nostro agire quotidiano, più diversi livelli di realtà si mischiano tra loro e si sovrappongono. È un call center che ci chiama o un robot? È la nostra vera immagine quella che postiamo sui social media o abbiamo utilizzato qualche filtro o applicazione di grafica generativa? Oppure ancora abbiamo fatto ricorso a un avatar? Pensiamo all’uso del deep fake o degli ologrammi per riportare in vita artisti ormai scomparsi o che si siano ritirati dalle scene, ma vogliano comunque beneficiare di diritti di sfruttamento della propria immagine per nuove produzioni artistiche. Siamo nel pieno di quella discontinuità che noi abbiamo chiamato the end of reality, finisce la realtà per come l’abbiamo intesa finora, solo fatta da fisicità, da atomi e ci si avvia verso una realtà fatta da atomi e bit, in cui è necessaria letteralmente una nuova alfabetizzazione che ci aiuti a vivere sovrapponendo layer fisici e digitali che caratterizzano the age of phygital. Un nuovo ABC, dove però l’acronimo sta per atoms-bits-convergence. Emerge, quindi, l’esigenza di costruire la propria realtà, in ragione degli scopi da soddisfare, come realtà “su misura”, individuale. Quando alla realtà fisica a cui siamo abituati si va sovrapponendo e mischiando la realtà digitalmente prodotta, tramite tecnologie di augmented reality, virtual reality, augmented virtuality e quindi di mixed o extended reality, la possibilità di dare corpo alla costruzione della propria realtà, in funzione delle esigenze e delle contingenze del momento, diventa fattibile. Perché l’esperienza sia seamless, senza soluzione di continuità tra fisico e digitale, confondendo e incrociando intimamente i piani e dal metaverso si passi al multiverso, è necessaria un’elevatissima capacità computazionale.

La convergenza tra atomi e bit passa anche attraverso la nostra capacità di sintetizzare nuovi materiali digitalmente concepiti, programmare il comportamento degli stessi, intervenire sul patrimonio genetico di una pluralità di specie, inclusa quella umana, disegnando digitalmente nuove sequenze genetiche o facendo editing delle stesse, ma anche – all’opposto – imitare la natura trasferendo le specificità degli atomi ai bit, con tecniche di biomimicry. Fortunatamente l’era del phygital ci permette di creare da zero risorse e input, che stanno drammaticamente giungendo al termine nel nostro pianeta. L’Amazonification dei consumi, ovvero il nostro desiderio di acquistare senza sosta e in maniera ubiqua qualunque cosa in qualunque momento, pretendendo che la consegna sia istantanea, costituisce quel fabbisogno dalle conseguenze nefaste che ci porta verso the end of abundance e apre a quella che da più parti è stata de- finita the age of scarcity. È urgente e improcrastinabile che cambino i modelli di consumo globale, guidati dal mantra “there is no Planet B”, riducendo gli sprechi, ripensando i rifiuti, compensando o eliminando le emis- sioni di anidride carbonica. È qui che ci viene incontro la straordinaria opportunità offerta dagli avanzamenti scientifici: dalle pratiche circolari, all’utilizzo di materiali ed energie alternative, compresa la sintesi in vitro di carne animale senza che siano necessari né allevamenti inquinanti né la crudele macellazione. Crescenti prassi di re-shoring per limitare trasporti e logistica e quindi inquinamento e impatto, uniti all’emergere di nuove centralità, in cui la Cina ha smesso di essere “la fabbrica del mondo”, lasciando spazio anche nuovi modi di uso del suolo e delle risorse naturali, stanno già favorendo un global remapping che sembra essere la via per rendere sostenibile l’era della scarsità, senza che questa diventi l’era dell’austerità.

Fare i conti con risorse sempre più scarse e convivere con crescenti vincoli di eco-compatibilità e sostenibilità porta a riprogettare prodotti, servizi e processi secondo logiche di design for sustainability rendendo possibili produzioni diverse e migliori rispetto al passato, in un contesto in cui la società e i mercati non solo si attendono questo genere di prassi, ma le controllano, pretendendo integrità di comportamenti e accountability nei processi. Questa crescente awareness nei consumi muove ulteriormente le imprese nella direzione di soddisfare gli azionisti a scapito di tutti gli altri interlocutori aziendali, quanto piuttosto creare un valore superiore per tutti gli stakeholder e per il pianeta. La pandemia da Covid-19 ha insegnato alla società tutta, che la produzione di valore da parte delle imprese – per quanto l’unica possibile nel nostro sistema capitalistico attuale – deve crescentemente rimettere al centro l’individuo, valorizzarne diversità, garantendo inclusione ed equità e traghettando la creazione di valore (e non la sua distruzione) alle future generazioni. La pervasività dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance) come metro di misura per il mondo del lavoro, per quello dei consumi e quello degli investimenti, crea il substrato che accelera le organizzazioni tutte verso questo nuovo modello di capitalismo, più sociale e responsabile. Ecco che assistiamo a the end of profit-first – unico faro per imprese attente solamente alla creazione di valore per gli azionisti a scapito di tutto il resto – e ci avviamo verso the age of purpose. Come più autori – da Michael Porter a Ed Freeman, da Mark Kramer a Ranjay Gulati – hanno sottolineato, non si tratta più di contrapporre lo scopo aziendale al profitto, la missione sociale a quella competitiva o “tassare” il profitto per compensare eventuali iniquità o danni generati alla società o all’ambiente, quanto piuttosto scoprire il potere della congiunzione “AND”: purpose AND profit.

Creare valore per tutti gli stakeholder significa trascendere i confini abituali dell’impresa e ripensare la propria organizzazione come un ecosistema, capace di assorbire e generare valore da una pluralità di attori, non solo lungo la filiera. La concezione di impresa che abbiamo a lungo difeso è venuta meno e segna la fine dell’impresa singola – ovvero quella che abbiamo chiamato the end of isolation, che apre alla nuova age of ecosystems. Non solo le imprese e le organizzazioni hanno necessità di relazionarsi di più e più intensamente per generare valore per tutti gli stakeholder, ma sono gli individui stessi – che compongono e animano le organizzazioni – ad avere un crescente bisogno di connettersi, attivando e nutrendo relazioni sociali face-to-face e digitali che rinforzano comportamenti e sottoculture, in logica di omofilia, ma che, grazie alle tecnologie digitali e al basso costo dei mezzi di trasporto, aprono soprattutto a una pluralità di nuovi legami deboli, capaci di favorire l’esplorazione e l’assorbimento di nuove risorse e competenze. Se in passato localismo e limitata cerchia di contatti erano il tratto comune della stragrande maggioranza delle persone e le reti di fornitura erano settoriali e locali (i distretti industriali, per avere un riferimento in mente), oggi non è infrequente disporre di alcune decine di migliaia di contatti sui social network o nel proprio smartphone, viaggiare intensamente anche in giovane età alla ricerca di competenze ed esperienze ovunque nel mondo e aprire le proprie imprese a progetti collaborativi sia con imprese geograficamente e settorialmente distanti è e sarà sempre di più il fabbisogno generalizzato. Questa crescente interconnessione di persone, prodotti, servizi, processi e organizzazioni è resa possibile da quella che è stata definita la API economy, ovvero le opportunità di generazione di nuovo valore rese possibili dai protocolli di comunicazione tra i layer digitali di app, device e interi sistemi, che abilitano piattaforme ed ecosistemi, favorendo lo sviluppo e la crescente possibilità di disporre di prodotti e servizi iper-complessi (si pensi tra tutti ai nostri smartphone), in cui tutto è compatibile con tutto.

Prodotti e servizi sempre più complessi e interconnessi, capaci di incorporare layer fisici e digitali, con capacità di agire in autonomia e sostituirci o aiutarci in una pluralità di situazioni, capaci di limitare l’uso e l’impatto sull’ambiente e produrre valore economico e sociale – ovvero la sintesi a chiusura di tutte le discontinuità già trattate – portano necessariamente a sviluppare nuovi fabbisogni che siano guidati dall’outcome, dal risultato atteso, e non da altro. Se ad esempio consideriamo il bisogno di mobilità, potersi spostare in maniera green su mezzi elettrici a guida autonoma, interconnessi tra loro e con i sistemi di regolazione del traffico e realizzati da un ecosistema di attori pubblico-privati non necessariamente già operanti nella produzione di veicoli, esprime bene il concetto. Non possedere l’auto, ma spostarsi. Ecco che prende forma la nostra ultima discontinuità, contigua a tutte le precedenti: the end of ownership. Le possibilità offerte da una società sempre più phygital, in cui si dematerializzano gli asset, abilita la fruizione di prodotti e servizi. Accesso, dunque, ma non possesso; outcome, ma non asset, in pura servitization, dove ogni outcome atteso (es. mobility, education, sustainability, ecc.) diventa “as-a-service”. Si apre the age of access. Ciò diventa possibile e si afferma come modello in tutti gli ambiti e in tutti i settori grazie alla possibilità di non far conto solo sulle proprie risorse, competenze e asset ma orchestrando un ecosistema di partner e relazioni esteso ed eterogeneo. Se torniamo all’esempio sul fabbisogno di mobilità, è evidente che si possa andare nella direzione del mobility-as-a-service solo avendo veicoli elettrici a guida autonoma, che possano interagire con la sensoristica di bordo e stradale, disponendo di una rete di infrastrutture di ricarica e servizio, avendo a riferimento un modello di sviluppo economico e sociale meno impattante, con più spazi per la socialità. Si tratta di accedere a uno o più ecosistemi del valore capaci di tarare hardware e software sui fabbisogni puntuali del suo utilizzatore in ragione delle contingenze rilevabili dai dati, cosa che sarebbe impossibile se – per converso – si dovesse sostenere un total cost of ownership.

 

Nei prossimi appuntamenti di Allenamenti, approfondiremo ciascuna delle sette discontinuità qui sopra introdotte raccontando dinamiche, modelli di business e strategie delle imprese, italiane e non, che stanno aprendo alle nuove “age”.

 

 

 

Le sette discontinuità competitive che cambiano per sempre le organizzazioni (Editoriale #41)